L'ampia pianura steppica qui sopra e il trenino che l'attraversa, non deve ingannarci, parliamo di sud e di treni dimenticati, ma non di quelli della Murgia!!!
Grazie a Vincenzo, che ha condiviso con noi questo articolo, oggi vogliamo riportarvi un racconto estratto da "Ultime notizie dal sud" ultimo scritto di Luis Sepùlveda che uscirà il 3 novembre.
Il Sud, raccontato da Sepùlveda è quello della Patagonia, e il treno giunto alla sua ultima corsa, il Patagonia Express è una locomotiva del 1915. La storia, è una storia di amore e passione (quelli che a CicloMurgia piacciono di più!!!!): amore e passione per la propria terra costretta a piegarsi alle logiche dei soldi. E niente importa, neanche il fatto, che la Torchita era l'unico mezzo di trasporto capace di collegare El Maitén con Esquel...
Vi proponiamo questa breve lettura perchè inevitabilmente questo racconto ci ha riportati alla nostra cara Murgia, e non solo per la sua pseudo-steppa e per la ferrovia che la attraversa, ma anche - e soprattutto- perchè quel tratto ferrioviario è stato definitivamente chiuso per favorire il trasporto su gomma.
Il nostro sogno è farvi scoprire la Murgia senza farvi tirare fuori l'automobile dal vostro garage; il nostro sogno è farvi trovare in stazione una bicicletta scalpitante che aspetta che il vostro treno si fermi per farvi partire all'avventura. Il nostro sogno è rendere il turismo meno invasivo possibile, vivere la natura senza aggredirla, godere di un paesaggio senza essere disturbati dalla visione di un mega-albergo nel punto più alto e godere di un panorama perchè ce lo siamo guadagnato a suon di sgambettate, e non dalla sala colazione del suddetto mega-albergo!!
ps. ci sentiamo ancora più vicini a Sepùlveda quando dice che tutti i suoi appunti di questo viaggio li avrebbe scritti su una Moleskine, naturalmente! :)
-Da Repubblica di domenica 23 ottobre 2011 - pag. 30-
"Sapevamo che la Trochita partiva da El Maitén il martedì con
patagonica precisione, fra le otto del mattino e mezzogiorno, e che dopo aver
raggiunto Esquel ritornava il giovedì, mettendosi in marcia con identica puntualità
per ripercorrere al contrario i trecentocinquanta chilometri a cui erano stati
ridotti, dopo le privatizzazioni e la morte delle ferrovie argentine, gli
originari millesettecento del Patagonia Express.
Quella mattina la stazione
appariva stranamente deserta. Da quanto ci risultava, il vecchio treno continuava
a essere l’unico mezzo di trasporto per gli abitanti di El Maitén che dovevano
andare a Esquel a comprare beni di prima necessità, a farsi vedere dal medico o
a lottare contro la burocrazia. La biglietteria era chiusa e così cominciammo
ad aggirarci per la stazione senza incontrare nessuno, finché non arrivammo
davanti all’officina e sentimmo la musica di una radio e delle voci. Era un capannone
enorme e là, fra tonnellate di metallo arrugginito, una locomotiva a vapore che
mostrava parte delle sue viscere d’acciaio e tre vagoni di legno, scorgemmo un
gruppo di uomini vestiti con la classica tuta blu dei meccanici. «Cosa
raccontate di bello, ragazzi?» ci salutò uno di loro vedendoci. Rispondemmo al
saluto e subito fummo invitati a bere mate e a mangiare pane e formaggio. «Possiamo
sapere cosa vi porta da queste parti?» chiese un altro. «Il treno. Ci hanno
detto che partiva oggi per Esquel».
Il nostro piano di lavoro per quel giorno era
abbastanza semplice: il mio socio
avrebbe fatto il viaggio a bordo, scattando foto in interno, mentre io lo avrei
seguito in automobile. Saremmo rimasti a Esquel fino al giovedì e poi saremmo
rientrati al contrario, io in treno riempiendo di appunti la mia Moleskine, e
il mio socio in macchina, scattando foto in esterno. «È vero. Partiva oggi, ma
non è partito e non partirà» dichiarò uno dei meccanici. «E quando parte?»
domandammo. «Questo non lo sa nessuno. È charteado» spiegò uno dei più giovani.
«Charteadoda chartear?» indagò il mio socio. Sì, da chartear, un nuovo verbo
maledetto derivato a sua volta da charter. Un’associazione di oziosi milionari
texani amanti delle ferrovie a vapore avevano charteado il Patagonia Express
per un periodo indefinito, senza curarsi del fatto che gli abitanti di El
Maitén, Esquel, Ñorquinco e Leleque sarebbero rimasti senza il loro unico mezzo
di trasporto.
Erano ormai undici giorni che la Trochita era in mano a quei turisti
e i ferrovieri, senza nascondere la loro rabbia, cercarono di consolarci suggerendoci
una soluzione. «Oggi arriva uno di quelli. Credo che sia cubano o dominicano, è
il loro interprete. Parlate con lui e forse vi lasceranno salire sulla
Trochita» disse Marcelo. Decidemmo di aspettare l’interprete chiacchierando con
il gruppo. Come tutti i patagoni, ciascuno di loro aveva qualcosa da
raccontare, ma discorrevano lentamente, come per non dare importanza a quello
che dicevano. «Avete visto la locomotiva che stiamo riparando? È un gioiello, una
Maffei 350, tedesca, costruita nel 1915. Non ci sono più macchine del genere in
nessun posto al mondo. Ne abbiamo due e sono parte della storia della
Trochita». [...]
L’arrivo di un insolente fuoristrada con luccicanti paraurti
cromati e fari sul tetto spense l’allegria nel capannone. L’autista faceva
anche da interprete e parlava con un inconfondibile accento cubano. Con un
gesto interruppe le dimostrazioni di servilismo del capostazione e, indicando
il mio socio che in quel momento scattava qualche foto alla vecchia locomotiva
tedesca, puntualizzò: «Le avevamo detto che, finché il treno era nostro, non volevamo
attorno nessun giornalista». Avevo intenzione di tranquillizzarlo spiegandogli
che non eravamo giornalisti, solo due viaggiatori che passavano per caso da lì,
ma Marcelo fu più svelto: «Sono amici miei, volevano vedere l’officina e li ho
invitati. E poi il treno voi l’avete soltanto charteado. Non è di vostra proprietà». «Vogliamo salire sul treno, fare qualche foto,
tutto qui. Ci dai una mano?» domandò il mio socio. Il cubano ci osservò con
attenzione prima di rispondere. «Per cinquemila dollari vi portiamo alla prossima
stazione. Solo andata». La stazione successiva era a una trentina di
chilometri, un po’ meno di un’ora di viaggio sulla Trochita. «Allora dì ai tuoi
capi che vadano a farsi fottere, solo andata» aggiunse il mio socio nel suo
tono più gentile. [...]
«Be’, siamo rimasti senza treno» osservai. Bevemmo il
mate in silenzio, fumammo una sigaretta. Il mio socio chiese se poteva scattare
qualche foto all’officina e i ferrovieri acconsentirono con entusiasmo. «Ragazzi»
dichiarò Marcelo servendo qualche bicchiere di vino, «voi siete venuti a fotografare la Trochita e la
fotograferete». Il mio socio e io ci guardammo decisi ad accettare qualunque
cosa ci proponessero, perché a sud del 42° parallelo la fiducia nasce senza
mezzi termini, senza ambiguità né goffi richiami alla prudenza. «Vi aspetto
domattina presto, alle sette, al campo da calcio. E portate qualche soldo per
comprare la nafta» suggerì Marcelo.
Il resto del pomeriggio lo passammo a
visitare El Maitén, prendemmo alloggio in una pensione dai letti duri e al
tramonto andammo a mangiare in un ristorante che ci sedusse col suo nome,
Patagonia Express, e ci rimpinzò con uno dei migliori matambre che avessimo mai
assaggiato. Poi ci sedemmo in un parco a guardare le migliaia di stelle che
illuminano il cielo della Patagonia. [...]
Come in tanti altri paesi delle
lontane province del Sud, a El Maitén la gente aveva l’abitudine di sedersi
dentro la stazione a guardar passare il treno. È un’usanza che conferma
l’esistenza del tempo e dell’universo: se il treno è passato vuol dire che è partito
da un posto e va in un altro. Il mio socio e io bevevamo il vino osservando le
stelle, El Maitén era immersa nel buio e in qualche angolo della steppa i
sequestratori della Trochita dovevano lamentarsi della scomodità dei vagoni
mentre dalla sua dignitosa umiltà di immaginetta sbiadita la Madonna di Luján
doveva guardarli con occhi ancora più tristi del solito, perché la tristezza è
l’unica cosa che lasciano i vincitori al loro passaggio.
Il giorno dopo alle
sette, interrompendo una partita di calciatori mattinieri, andammo da Marcelo,
che ci aspettava accanto al suo vecchio ma impeccabile 113 biplano Curtiss
Falcon. [...] Dopo aver sorvolato per dieci minuti la steppa seguendo i binari
del treno, avvistammo la Trochita. Il vecchio espresso patagonico avanzava
lentamente, una grossa scia di fumo usciva dal comignolo della locomotiva e
subito veniva dispersa dal vento. Dalla pianura infinita, il vecchio treno ci faceva
segnali di vapore e fumo, ci invitava ad avvicinarci a lui, amico dai muscoli
di ferro e dal cuore di fuoco. Volammo sopra il treno, accanto al treno, di fronte
al treno, lo seguimmo quasi attaccati ai fianchi nelle due direzioni, mentre i
padroni provvisori della Trochita erano passati ai gesti osceni. [...]
Scendemmo
dal Curtiss Falcon mezzo anchilosati e aiutammo Marcelo a coprire l’aereo con
un pesante telone. Eravamo riusciti a fotografare la Trochita, il vecchio
espresso patagonico, il leggendario Patagonia Express, e ci consideravamo soddisfatti,
ma nell’officina i ferrovieri ci riservavano ancora una sorpresa. La nostra conversazione fu interrotta dall’inconfondibile
fischio di un treno e tornando nell’officina vedemmo l’imponente Maffei 350 che
innalzava una densa colonna di fumo e muoveva le bielle, facendo girare le
ruote e trainando due carrozze passeggeri. «Eccolo, ragazzi. Il vecchio
Patagonia Express. Volete farci un giro?» disse uno dei ferrovieri.
Ci
guardammo a vicenda, guardammo anche il treno che sbuffava per la voglia di
partire verso la steppa e stringemmo forte la mano a quegli uomini che
esibivano l’orgoglio più sano del mondo, quello del lavoro ben fatto, quello di
essere parte di un insieme indispensabile: l’orgoglio di classe, semplicemente.
«I gringos sono andati verso nord, perciò noi andremo a sud» disse il
macchinista. Allora il mio socio ebbe l’idea più brillante. «E se avvisassimo
la gente del paese che c’è il treno?».
Ed esattamente due ore dopo, con
perfetta puntualità, la locomotiva mandò sbuffi di vapore che bagnarono di nebbia
le banchine, il fochista cominciò a buttare palate di carbone nella caldaia e noi
ci accomodammo sulle due carrozze in mezzo a una cinquantina di persone felici
di poter nuovamente contare sul loro unico mezzo di trasporto.
Quel viaggio fu una festa.
Quel viaggio fu il
più bello della nostra vita, perché era nato dalla determinazione di un gruppo
di uomini che, infischiandosene delle rappresaglie che avrebbero subito, avevano
deciso che due viaggiatori venuti da molto lontano dovevano essere testimoni del loro amore per il lavoro.
Era limpida l’aria della steppa, erano allegri i volti affacciati ai finestrini
delle carrozze, era compatta la colonna di fumo che usciva dalla locomotiva, era
chiaro e onnipresente il fischio che annunciava il passaggio del treno, era
dolce il vigore delle bielle che con tutta la forza dell’acciaio spingevano le
ruote, e lo sferragliare del convoglio invitava a bere il mate offerto dal passeggero
accanto mentre le conversazioni passavano in rassegna tutte le cose della vita.
Fu un viaggio allegro, molto allegro, perché fu l’Ultimo Viaggio del Patagonia
Express."
Traduzione Ilide Carmignani
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