Percorso del Viaggio in bici - Estate 2013

dove sta pedalando Ciclomurgia??

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lunedì 24 settembre 2012

Solo dal tuo respiro


Eri appena tornato dalla settimana di lavoro a Berlino ed io ero  lì, sotto casa tua, nello stesso posto dove c’eravamo lasciati sette giorni prima …. ti stavo aspettando.
Davanti al portone scambiasti due chiacchiere con il panettiere ed io alle tue spalle, in disparte,  ascoltavo in silenzio. Erano giorni che speravo, incapace di darmi una mossa, bloccata da un ignavia “forzata”, lasciavo che il cielo così mutevole di settembre, mi versasse addosso secchi di pioggia per poi riprendersela, in combutta col sole; avrei voluto evaporare con quella stessa acqua, svanire in una bolla gassosa e trasparente e salire, salire, salire perdendo prima la forma, poi la coesione delle parti e infine  l’essenza stessa della mia materia, per rientrare nel ciclo degli elementi e poter  convincere me stessa  che almeno in quel modo sarei servita a qualcosa.
  Poi, finalmente, andammo via senza esitazioni.
Via dell’Amba Aradam al tramonto  è  un formicaio “drogato” di macchine, formiche ribelli guidate da conducenti all’improvviso dimentichi della servile, quotidiana, sottomissione al capo ufficio, e pronti a sfogare tra di loro, l’uno contro l’altro: noia, frustrazioni e ansie accumulate in ore e ore di lavoro.  Su di me sento l’aria fredda autunnale miscelata al calore dei motori mentre una cappa di fumo cambia i colori a tutto, uniformando ciò che per natura ha bisogno della diversità per sopravvivere: pini, querce, olmi, siepi di lauro tutti dello stesso verde spento, triste come tutte quelle facce sole, strette nella doppia gabbia : la ridicola scatola di ferro  a quattro ruote nelle quale sono rinchiusi e, fuori, il coacervo di veicoli destinati all’immobilità eterna dalla mancanza di spazi per poter fuggire.
Nonostante i pensieri che ci frullano in testa, la volontaria carcerazione di quegli automobilisti ci rende felici; poiché tutto su questa terra si misura rispetto al suo contrario, ed è proprio nell’accostamento al suo opposto che ogni cosa esalta le sue qualità, io, sfrecciando a fianco di una fila di vetture in coda, sento raddoppiare la percezione della mia velocità, tu, zigzagando, hai la sensazione di lanciare un guanto di sfida in faccia alla stupidità umana di chi le guida, e ciò aumentava la stima che hai di te stesso, della tue capacità critiche di giudizio.
Mi sento sicura con te, sento che è il tuo occhio a guidarmi, e mi lascio trasportare dalle tue mani che mi indicano le traiettorie e i percorsi più veloci da seguire, mentre un movimento ciclico, incessante, ci lega.
Nelle tue cuffie Billie Holiday, una colonna sonora capace  di creare il surreale, la sua voce riesce quasi a rendere affascinante lo schizzofrenico  quadro metropolitano che ci si prospetta innanzi, come uno chef esperto sa cambiare la misura delle proporzioni tra dolce e salato per far si che nella  nuova pietanza nasca il sapore più sublime e ricercato. Loro in macchina, fermi, nascosti e soli tra i vetri sporchi, sguardi “incoscienti” incapaci d’incrociarsi, noi, in strada come in una sala cinematografica a doppio schermo, uno a destra e l’altro a sinistra; possiamo rallentare dove ci pare, liberi di decidere velocità e durata della pellicola; al cinema, fermo davanti ad uno schermo, immagini in movimento ti raccontano una storia, qui sei tu che ti muovi osservando ciò che accade, contemporaneamente spettatore e protagonista del racconto che ti gira intorno.
Ecco il fioraio dell’angolo di via Carlo Felice con il quale ogni tanto la sera ti fermi a chiacchierare prima di rincasare, sta pulendo dalle foglie gli steli delle rose gialle; il vigile di porta maggiore con un occhio al culo della ragazza che attraversa sulle strisce e l’altro a te, che, come ogni giorno, passi infischiandotene  del semaforo rosso; i tranvieri fuori dal deposito dell’ Atac, all’inizio della Prenestina, aspettano l’arrivo del 14, del 5 e del 16 per dare il cambio alla guida  ai rispettivi colleghi; più avanti il “baretto” della “Sora Dina”, identico dal dopoguerra ad oggi, dove la stessa Dina, servendo cappuccini, napoletane, sfogliatelle e caffè al vetro, sembra giocare alle tre carte spostando piattini e tazzine ad una velocità da prestigiatrice; Massimo tira su la serranda della pizzeria e ci saluta con un “bella zi’!!” alla romana, ma con l’accento sardo; mentre, dall’altro lato, sul marciapiede di sinistra, attacchini affiggono i pezzi di un 6x3 come se stessero completando un puzzle, un bambino piange accanto al nonno perché gli è sfuggito di mano il palloncino pieno d’elio e due  indiane, in abiti tradizionali dai colori sgargianti, chiacchierano fuori dal negozietto famoso perché aperto fino a tardi con la  Peroni ad 1 euro.
Il cancello con l’insegna “ciclofficina popolare” ci si apre innanzi come traguardo di una corsa della quale alla partenza non conoscevo né il percorso né l’arrivo.
Di lì a poco mi stavi toccando come non l’avevi mai fatto, con delicatezza, quasi avessi paura di graffiarmi,  sentivo il calore delle tue mani e quella  calma perfettamente consequenziale alla forza con la quale mi avevi presa fino a dieci minuti prima; sentirti prima su di me ed ora al mio fianco mi dava il piacere del riposo dopo l’amore, la gioia e il ricordo di momenti che hai la certezza rivivrai presto.
Il tuo respiro prima affannato, poi tranquillo, aveva la frequenza di chi era in vena di silenziose confidenze, ma quando ci vogliono troppe parole per esprimere un concetto, un sentimento o una semplice emozione, significa che è il momento di tacere,  è meglio restar zitti ad ascoltare il respiro e lasciare che sia lui a raccontare tutto ciò che non si può dire, tutte quelle cose  che nessuno ha mai scritto. Tu non avresti potuto sentire il mio, perché un pezzo di ferro, con due ruote, due pedali una sella e un manubrio non ha polmoni, io però, tra quattro pareti, in un mondo di bulloni, seghe circolari, trapani a colonna e chiavi inglesi, potevo ascoltare il tuo, e mentre mi guardavi sapevo quello che stavi pensando.







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